Il più forte giocatore portoghese di tutti i tempi si è spento a 71 anni. È stato uno dei più
grandi simboli del pallone e del Secolo Breve.
di Daniel Degli Esposti
Il 5 gennaio 2014 passerà alla storia come uno dei giorni più tristi della storia recente del
Portogallo. Nelle prime ore del mattino, il lembo più occidentale della Penisola Iberica ha ricevuto
la notizia che non avrebbe mai voluto sentire: il cuore di Eusébio da Silva Ferreira ha cessato di
battere. O Rei, il sovrano assoluto del calcio lusitano, si è arreso ai limiti della natura umana.
Migliaia di tifosi, appassionati e semplici cittadini gli hanno tributato i loro omaggi commossi;
molti di loro sembravano quasi sorpresi: credevano che un giocatore capace di segnare 733 gol in
745 partite da professionista non fosse soggetto alla caducità e alle sofferenze dei mortali. La sua
scomparsa ha toccato il mondo del calcio perché la sua carriera ha segnato la storia del pallone e ha
cambiato la percezione del Portogallo e del suo colonialismo che l’Occidente aveva elaborato nei
primi anni della dittatura Salazar; mentre O Rei dello sport sudamericano imprimeva il suo nome
nella leggenda della Coppa Rimet e sulle pagine più belle dell’epica calcistica, il suo più grande
rivale – il giocatore che calcava i campi della nazione che aveva colonizzato le splendide coste
brasiliane – veniva dall’Africa Orientale Portoghese e aveva la pelle scura. Era nato a Lourenço
Marques – l’odierna Maputo, capitale del Mozambico – il 25 gennaio 1942; suo padre si chiamava
Laurindo António da Silva Ferreira ed era un angolano bianco, un umile lavoratore delle ferrovie
coloniali. L’anima più intimamente africana del fanciullo arrivava dai geni materni: Elisa
Anissabeni era una mozambicana nera, una donna orgogliosa dei suoi tre figli e pronta a fare
sacrifici per aiutare il quarto. Quando quest’ultimo – il piccolo Eusébio – aveva sette anni, Laurindo
si ammalò di tetano; morì poco meno di un anno dopo. Il bambino conobbe ben presto gli stenti dei
quartieri più poveri della sua città; anche se i morsi della fame corrodevano il suo fisico asciutto,
adorava spendere le poche energie che il cibo gli garantiva correndo dietro a palloni improbabili.
Calzini vecchi, giornali e stracci compattati davano una forma sferica ai suoi sogni più belli;
Eusébio non aveva un ottimo rapporto con la scuola, ma sentiva che quelle corse sfrenate sui sassi e
sulla polvere gli avrebbero aperto le porte di un futuro migliore. I suoi piedi scalzi davano del “tu” a
quell’ammasso indefinito di pezze che rotolava per le strade di Lourenço Marques; le sue gambe
scattanti bruciavano i metri con una rapidità sorprendente. Eusébio da Silva Ferreira era nato per il
futebol: anche se sua madre cercava di tenerlo ancorato alla dura realtà dei sobborghi, la sua mente
volava negli stadi più belli del mondo. I suoi occhi avevano visto solo i sassi e la terra bruciata
dell’Africa, ma il suo cuore sognava o Maracanà, il tempio del calcio mondiale: quando alcuni
ragazzi del suo quartiere lo chiamarono a far parte dei Brasileiros, non si lasciò sfuggire
l’occasione. Sapeva che quella squadra amatoriale, che si ispirava alla fenomenale e sfortunata
Seleçao del 1950, apriva una finestra ideale sull’orizzonte calcistico delle colonie: dopo qualche
mese, Eusébio bussò alla porta del Grupo Desportivo de Lourenço de Marques, una società che
lavorava in sinergia con il Benfica. I tecnici di questa società lo videro entrare e sorrisero: un
homem negro nella filiale della squadra-simbolo della dittatura di Antonio Salazar? Impossibile. Lo
respinsero con perdite, ma non prostrarono il suo animo; un ragazzo che aveva visto morire suo
padre di tetano e che aveva vissuto a contatto con una realtà che non riusciva ad assicurargli un
futuro diverso da quello delle sozze baracche del suo quartiere non poteva conoscere il significato
del verbo arrendersi. Si presentò al “centro tecnico” dello Sporting Lourenço Marques, che godeva
del patrocinio dello Sporting Lisbona; i dirigenti dei rivali del Grupo Desportivo gli diedero un
pallone e gli chiesero di mostrargli cosa sapesse fare. C’è da supporre che il suo selezionatore,
rapito dalla sua fiammante eleganza, abbia gridato a un suo collaboratore: “Chiuda i cancelli!
Presto!”. Con la maglia dello Sporting, Eusébio vinse il Titolo Distrettuale di Lourenço Marques e
il Campionato Provinciale del Mozambico. All’epoca, Salazar considerava quell’enorme lembo di
terra africana come una semplice appendice esterna del suo Portogallo: ogni sua manifestazione
doveva essere ricondotta alle strutture governative ed amministrative della madrepatria; ogni talento
di quella lontana Provincia doveva imbarcarsi su un piroscafo e virare verso Lisbona. Erano stati
questi imperativi dittatoriali – uniti al dissenso della madre – ad impedire al quindicenne Eusébio di
trasferirsi a Torino; alcuni osservatori della Juventus avevano notato il suo talento, ma non erano
riusciti a portarlo con loro sotto la Mole perché “non si voleva così colà dove si poteva ciò che si
voleva”: la Perla Nera del Mozambico era destinata al Portogallo. Mentre i tecnici di Lourenço
Marques se lo godevano, un ex-giocatore brasiliano – José Carlos Bauer – lo vide all’opera sui
campi della sua Africa e rimase impressionato dal suo talento. Si ricordò che Béla Guttman, il
leggendario tecnico ungherese che lo aveva allenato ai tempi del Saõ Paulo, si era trasferito al
Benfica; lo chiamò e gli disse che, nella principale provincia africana del Paese in cui lavorava,
esisteva un uomo che correva i 100 metri in 11 secondi e che aveva una predisposizione incredibile
al gioco del calcio. C’era solo un piccolo caveat: era nero. Guttman, un ungherese di origine ebraica
che aveva vissuto avventure umane professionali incredibili, era un visionario e aveva un carisma
straordinario: non impiegò molto tempo a convincere i suoi dirigenti che quel ragazzo africano
avrebbe potuto cambiare la storia del Benfica e del Portogallo. Antonio Salazar accettò la sfida e
decise di portarlo nella squadra-simbolo del suo regime; nonostante i favori espliciti del dittatore
fascista, le Aquile di Lisbona non avevano perso il loro carattere marcatamente popolare: erano
sempre state l’espressione delle masse proletarie diseredate e continuavano a contrapporsi agli snob
dello Sporting, la formazione dell’aristocrazia lusitana. Quando tutto sembrava fatto, sopraggiunse
un piccolo problema: i presuntuosi bianco-verdi avevano un diritto di prelazione su Eusébio poiché
giocava in un club che era affiliato alla loro organizzazione. Anche se molti tifosi pensavano che
vedere homen negro con la loro maglia addosso sarebbe stata una bestialità, nessun dirigente dello
Sporting voleva lasciare ai suoi acerrimi rivali la perla del Mozambico. Nacque un duro
contenzioso; mentre i bianco-verdi proposero al ragazzo un semplice inserimento nel settore
giovanile, il Benfica offrì alla madre di Eusébio un contratto da professionista. La signora decise: il
suo figliolo avrebbe indossato la casacca rossa delle Aquile. Per evitare che i loro avversari
rapissero il giovane talento mozambicano, i responsabili della squadra che – di lì a poco – avrebbe
vinto la sua prima Coppa dei Campioni contro il grande Barcellona di Kubala lo portarono in una
località segreta e lo ribattezzarono Ruth Molosso; i loro sforzi non sarebbero stati vani.
Nel decennio successivo, Eusébio incantò l’Europa con il suo repertorio sterminato: tutti gli
appassionati conoscono le sue grandi imprese, che hanno riempito le pagine dei giornali e gli
almanacchi statistici del pallone. 11 titoli portoghesi, 5 coppe nazionali, una Coppa dei Campioni e
tre finali perse, Pallone d’Oro, una pioggia di titoli di capo-cannoniere, nono nella classifica di tutti
i tempi dell’IFFHS, 638 reti in 614 partite ufficiali con la maglia delle Aquile, il tramonto nelle
Americhe… Questi numeri sintetizzano meglio di ogni parola la forza del calciatore, ma non dicono
nulla sull’impatto che l’uomo Eusébio ebbe sul suo Portogallo. Quando segnò una delle reti
decisive della Finale della Coppa dei Campioni del 1962, il suo Benfica pose fine alla grande storia
del Real Madrid di Alfredo di Stefano e Ferenĉ Puskas; la Casa Blanca di Francisco Franco cedeva
il passo alle Aquile di Salazar? Vero, ma non del tutto: il simbolo degli alfieri lusitani era un
africano che non aveva mai rinnegato le sue origini e che portava nel Paese che aveva oppresso i
suoi “connazionali” tutta la forza e l’orgoglio di un popolo che non aveva perso la speranza. Le sue
giocate incredibili e le sue punizioni leggendarie fecero innamorare tutti i portoghesi; nella
dormiente società dell’occidente iberico, non furono contagiati dalla passione per il nuovo idolo
nero soltanto i progressisti e i dissidenti, ma anche coloro che avevano approvato la cortina
nazionalista del regime e la decisione di Salazar di osservare il lutto per la morte di Adolf Hitler. Le
reti di Eusébio mostrarono al mondo che un altro Portogallo era possibile e che le speranze di un
rinnovamento culturale erano vive anche nella spenta atmosfera della Lisbona di metà secolo.
Anche se lui non se ne accorse, le sue giocate anticiparono la temperie che avrebbe portato alla
Rivoluzione dei Garofani; aveva fatto divertire il popolo, gli aveva restituito la capacità di sognare e
di immaginare un futuro diverso. Con il suo poker alla Corea del Nord, aveva trasmesso a un Paese
morto la sua voglia di rialzarsi e di costruire una carriera trionfale; se Eusébio non si era arreso
dinanzi al rifiuto della periferia e non aveva ceduto al cospetto di uno spaventoso 0-3, i portoghesi
avevano il dovere di guardare avanti. Per una strana ironia della sorte, lo fecero proprio mentre il
loro amatissimo campione attraversava l’Oceano per godersi la sua pensione dorata e condividere
con Pelé il palcoscenico americano. Il mondo lo aveva imparato a conoscere come The Black Pearl,
ma – dopo O Rei – Edson Arantes do Nascimento gli aveva strappato anche questo secondo
soprannome; i suoi trionfi iridati lo avevano posto sul trono più alto e avevano relegato in secondo
piano il simbolo del Benfica. Anche se il Brasile di Pelé, Didi, Vavà e Garrincha era molto più forte
del “suo” Portogallo, Eusébio non si era scomposto e aveva continuato a spaccare le reti avversarie;
per questo motivo, un giornalista britannico gli regalò un nuovo nome d’arte, che lo consegnò
solennemente alla leggenda del pallone: era diventato The Black Panther, una Pantera Nera che
lottava indomita, fino alla fine. Gli calzava a pennello: rappresentava perfettamente la sua vita di
combattente e il suo talento cristallino. Proprio per questo, i personaggi come lui lasciano un vuoto
incolmabile; chi cambia la storia del gioco, aiuta a modificare anche gli equilibri del mondo; pochi
uomini hanno raggiunto entrambi gli obiettivi con la classe di Eusébio da Silva Ferreira. Che la
terra ti sia lieve, campione.